Due Pesi, Due Misure: Il Caso Marò e il Silenzio sulla Global Sumud Flotilla

Quando la Cittadinanza Ha un Valore Variabile
Se vi state chiedendo perché un blog dedicato a tecnologia e informatica si avventuri nell’analisi di una questione geopolitica, la risposta è semplice: ci sono momenti nella storia che non possono essere ignorati, indipendentemente dal nostro focus abituale. Momenti che mettono a nudo le contraddizioni di un sistema, in cui il divario tra retorica e realtà diventa così lampante da richiedere una presa di posizione. Come professionisti tech, siamo abituati a ragionare su sistemi, protocolli, standard e coerenza logica. E proprio per questo, certe incoerenze ci saltano all’occhio con particolare evidenza.
Ottobre 2025 sarà ricordato come uno di questi momenti: mentre 40 cittadini italiani venivano arrestati illegalmente in acque internazionali dalla Marina israeliana, il governo italiano reagiva con una scrollata di spalle e qualche dichiarazione di circostanza. Per chi come noi ragiona quotidianamente in termini di algoritmi e logica, questa incoerenza nel “protocollo” di gestione dei cittadini all’estero è un bug troppo grande per essere ignorato.
Ma facciamo un passo indietro. Torniamo al 2012, quando due fucilieri di marina italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, uccisero due pescatori indiani al largo delle coste del Kerala. Quello che seguì fu un dispiegamento di forze diplomatiche, politiche e mediatiche senza precedenti nella storia recente italiana. Il caso divenne una questione di stato, con mobilitazioni oceaniche, manifestazioni di piazza, copertura mediatica h24, e un’azione diplomatica capillare che coinvolse tutti i livelli istituzionali.
Oggi, nel 2025, cittadini italiani impegnati in una missione umanitaria pacifica vengono arrestati in acque internazionali da un paese che viola palesemente il diritto internazionale. La risposta? Meloni li definisce “irresponsabili”, Tajani organizza qualche conferenza stampa di facciata, e il dibattito pubblico si concentra più sulla “legittimità” dell’azione israeliana che sulla tutela dei nostri connazionali.
Benvenuti nell’Italia dei due pesi e delle due misure, dove il valore della cittadinanza italiana dipende da quali cause sostieni.
Il Caso Marò: Una Mobilitazione Senza Precedenti
Per comprendere appieno l’ipocrisia di quanto sta accadendo oggi, dobbiamo ripercorrere il caso dell’Enrica Lexie. Il 15 febbraio 2012, a bordo della petroliera italiana che navigava al largo della costa del Kerala, si verificò un incidente che avrebbe segnato la politica estera italiana per anni: i fucilieri di marina Latorre e Girone, di guardia contro il rischio pirateria, aprirono il fuoco contro quello che ritenevano essere un’imbarcazione sospetta, uccidendo due pescatori indiani.
I fatti sono questi: due persone persero la vita. Due uomini disarmati furono uccisi da militari italiani che, secondo le autorità indiane, aprirono il fuoco senza un’adeguata ragione. Non ci fu pirateria, non ci fu minaccia imminente, solo un tragico errore di valutazione che costò due vite umane.
Eppure, quello che seguì fu straordinario. L’Italia mobilitò tutte le sue risorse diplomatiche per riportare a casa i marò. Il caso divenne una questione di sovranità nazionale, con l’intero arco parlamentare compatto nel difendere i due militari. Le piazze si riempirono di manifestazioni di sostegno. I media trasformarono Latorre e Girone in eroi nazionali, vittime di un’India prepotente e vendicativa.
La Macchina Diplomatica all’Opera
La risposta istituzionale fu impressionante nella sua portata:
- Il governo italiano presentò ricorso al Tribunale Internazionale del Diritto del Mare di Amburgo
- L’Unione Europea, nella figura dell’Alto Rappresentante Catherine Ashton, si schierò pubblicamente a supporto dell’Italia
- Furono organizzate commissioni parlamentari dedicate
- Il caso dominò l’agenda di politica estera per anni
- Furono stanziate risorse significative per l’assistenza legale e diplomatica
- I marò poterono rientrare in Italia durante le indagini, con permessi prolungati per motivi di salute
Il 2 luglio 2020, il Tribunale Arbitrale de L’Aja riconobbe finalmente la competenza giurisdizionale italiana, mettendo fine a una vicenda durata otto anni. Otto anni di mobilitazione totale, di pressione diplomatica, di campagne mediatiche. Otto anni in cui l’Italia non lasciò soli i suoi cittadini all’estero.
La Narrazione Mediatica
La copertura mediatica del caso marò fu totalizzante. Programmi televisivi dedicati, speciali giornalistici, editoriali su editoriali. La narrazione dominante era chiara: due eroi italiani vittime di un’ingiustizia internazionale. Le vite dei due pescatori indiani uccisi sparirono quasi completamente dal dibattito pubblico, ridotte a mere note a piè di pagina in una storia di orgoglio nazionale ferito.
Ricordo le parole di uno dei marò, anni dopo: “Rifarei tutto quello che ho fatto altre mille volte, non rinnego nulla. Sono un italiano, sono un militare”. Parole accolte con applausi, nonostante il fatto che “tutto quello che ho fatto” includesse l’uccisione di due civili disarmati.
Il Caso della Global Sumud Flotilla: Il Silenzio degli Innocenti
Torniamo ai nostri giorni: 1° ottobre 2025. Mentre cala la sera sul Mediterraneo, 43 imbarcazioni della Global Sumud Flotilla navigano in acque internazionali, dirette verso Gaza. A bordo ci sono oltre 500 attivisti da tutto il mondo, inclusi 40 italiani. La loro missione è semplice e pacifica: portare aiuti umanitari a una popolazione che subisce quello che la Corte Internazionale di Giustizia ha definito un possibile genocidio.
L’Abbordaggio Illegale
Alle 20:10, le prime luci delle motovedette israeliane appaiono all’orizzonte. Adriano Veneziani, uno degli attivisti italiani a bordo dell’Outaria, registra un messaggio vocale: “Siamo in posizione di sicurezza. Sono arrivate delle imbarcazioni in mezzo alla flotta. Sono palesemente delle barche militari, delle motovedette. Vediamo solo delle luci verdi e rosse”.
Dodici minuti dopo, alle 20:22, un altro aggiornamento: “Siamo ancora liberi di procedere nelle acque internazionali. Si avvicinano qualche motovedetta sempre più vicino, però ha acceso le luci”.
Sono le ultime parole che Adriano riesce a comunicare prima dell’abbordaggio.
Abdul Ramal Abaju, presidente di Action Aid, descrive la scena da un’altra imbarcazione: “Siamo circondati da altre 20 barche di soldati. Hanno tagliato le comunicazioni radio. Le radio nostre non funzionano più. Hanno cancellato il sistema di navigazione. Sono 20 motovedette armate con cannoni a prua, fucili automatici che si muovono a luci spente”.
Quello che segue è un’operazione militare in piena regola contro imbarcazioni civili in acque internazionali. Gli equipaggi, seduti a cerchio con i giubbotti di salvataggio, attendono pacificamente. Non c’è resistenza, non c’è violenza. Solo la determinazione silenziosa di chi sa di essere dalla parte giusta della storia.
Il Quadro Legale: Un’Illegalità Manifesta
A differenza del caso marò, dove esisteva almeno un’ambiguità giurisdizionale tra Italia e India, qui la situazione è cristallina. Francesca De Vittor, professoressa di Diritto Internazionale all’Università Cattolica, non lascia spazio a dubbi:
“Quelle acque non sono in alcun modo acque israeliane. Non sono acque sulle quali Israele possa esercitare nessun potere sovrano. Sono acque eventualmente palestinesi, sono acque dello stato di Palestina”.
Ma c’è di più. Come sottolinea la professoressa De Vittor, “qualsiasi riconoscimento di sovranità israeliana su aree di pertinenza della Palestina costituisce un illecito internazionale”. Non solo Israele non può autoattribuirsi sovranità su quelle acque, ma è illegale anche per gli stati terzi riconoscere tale pretesa.
La Corte Internazionale di Giustizia, il 19 giugno 2024, ha affermato che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, Gaza inclusa, è illecita e che tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno l’obbligo di non contribuire in alcun modo a quell’occupazione e di non riconoscere alcuna conseguenza giuridica all’occupazione stessa.
“Considerare le acque fuori Gaza come acque israeliane significa considerare che Gaza è Israele, e questo è un illecito internazionale”, conclude De Vittor.
L’abbordaggio di imbarcazioni civili in acque internazionali costituisce, nelle parole della professoressa, un “uso illecito della forza”. Sebbene tecnicamente non si possa parlare di pirateria (perché perpetrata da navi statali e non private), l’effetto è ugualmente illegittimo dal punto di vista del diritto internazionale.
La Risposta Istituzionale: Tra Fastidio e Indifferenza
Mentre gli attivisti italiani vengono arrestati, il governo reagisce in modo diametralmente opposto rispetto al caso marò. Giorgia Meloni, in una conferenza stampa che trasuda fastidio dalla mimica facciale, definisce gli attivisti “irresponsabili” che “non pensano ai palestinesi”.
È una dichiarazione che merita di essere analizzata. Cittadini italiani che rischiano la vita per portare aiuti umanitari a una popolazione sotto assedio vengono accusati dal loro stesso governo di non pensare a quella popolazione. È un capovolgimento della realtà così sfacciato da risultare quasi surreale.
Antonio Tajani, ministro degli Esteri, organizza qualche conferenza stampa, dando aggiornamenti che sembrano più bollettini di guerra che azioni di tutela diplomatica. Il dettaglio più inquietante? Tajani sembra sapere in anticipo cosa farà Israele, suggerendo un coordinamento preventivo con Tel Aviv. Nel pomeriggio del 1° ottobre, una nota governativa informale avvisa: “Attaccheranno dopo le 19”.
La trattativa, se così si può chiamare, sembra già chiusa prima ancora che inizi. Tajani annuncia che gli attivisti “saranno portati ad Ashdod e poi da lì rimpatriati tutti”. Nessun accenno alla tutela legale, nessuna denuncia dell’illegalità dell’operazione, nessuna pressione diplomatica significativa.
Il Ricatto della Falsa Confessione
Ma è quello che succede dopo l’abbordaggio che rivela la vera natura di questa vicenda. Gli attivisti vengono messi di fronte a un ricatto: firmare un documento in cui ammettono di aver violato le acque territoriali israeliane, oppure finire in carcere.
È un ricatto su più livelli. Primo, perché costringe persone innocenti a dichiarare il falso. Secondo, perché questa falsa confessione legitterebbe retroattivamente un’azione illegale di Israele. Terzo, perché chi firma riceverà comunque un ban di dieci anni da Israele (e quindi dai territori palestinesi occupati), compromettendo il futuro lavoro umanitario nella regione.
Come riporta il Fatto Quotidiano, la situazione è kafkiana: “Ammettere di aver violato la legge potrebbe, a differenza di quel che si sta facendo trapelare, non assicurare un rimpatrio certo e rapido”. In altre parole, gli attivisti potrebbero firmare una confessione falsa e finire comunque in galera.
E il governo italiano? Silenzio. Nessuna presa di posizione netta contro questo ricatto, nessuna azione diplomatica decisa. Solo la solita liturgia delle “verifiche in corso” e degli “impegni per garantire il rimpatrio”.
La Differenza Che Fa la Differenza
Mettiamo i due casi a confronto, punto per punto.
Sul Piano Legale
Caso Marò: Due militari italiani uccidono due civili disarmati. Esisteva un’ambiguità giurisdizionale tra Italia e India, con entrambi i paesi che potevano avanzare pretese legittime. L’Italia sostenne (correttamente) che dovesse applicarsi l’immunità funzionale per atti compiuti nell’esercizio delle funzioni militari.
Caso Flotilla: Cittadini italiani impegnati in una missione umanitaria pacifica vengono arrestati in acque internazionali. Non esiste alcuna ambiguità: l’azione di Israele è palesemente illegale secondo il diritto internazionale. Non è stata commessa alcuna violazione, alcun reato, alcun atto che possa giustificare un arresto.
Eppure, nel primo caso l’Italia mobilitò tutte le sue risorse legali e diplomatiche. Nel secondo, accetta passivamente la narrativa israeliana.
Sul Piano Politico
Caso Marò: Mobilitazione parlamentare totale. Tutti i partiti, dalla destra alla sinistra, si compattarono in difesa dei due militari. Furono create commissioni dedicate, presentate interrogazioni, organizzate manifestazioni bipartisan. Il caso divenne una questione di sovranità nazionale.
Caso Flotilla: L’opposizione si astiene sulla mozione di maggioranza che sostiene il piano Trump (che di fatto legittima l’assedio di Gaza). Il governo definisce gli attivisti “irresponsabili”. Non c’è compattezza, non c’è mobilitazione, non c’è senso di urgenza nazionale.
Sul Piano Mediatico
Caso Marò: Copertura h24, speciali televisivi, editoriali su tutti i quotidiani. I marò divennero volti noti, le loro famiglie furono intervistate ripetutamente. La narrazione era quella di due eroi italiani vittime di un’ingiustizia.
Caso Flotilla: Copertura minimale. Libero definisce gli attivisti “marinaretti pro-pal”, trasformando un atto di solidarietà umanitaria in una provocazione politica. I media mainstream \ “brunovespiani” oscillano tra la cronaca asettica e la ripetizione acritica della narrativa israeliana.
Sul Piano Umano
Caso Marò: Due persone accusate di omicidio ricevettero supporto psicologico, assistenza legale continua, la possibilità di rientrare in Italia durante le indagini. Le loro famiglie furono costantemente aggiornate e supportate.
Caso Flotilla: Quaranta italiani arrestati illegalmente vengono lasciati soli. Alcuni sono ancora in carcere. Non si sa con precisione chi siano tutti, le comunicazioni con gli avvocati sono state inizialmente negate. Le famiglie devono affidarsi ai canali social della Global Sumud per avere notizie.
Le Ragioni di un Doppio Standard
Cosa spiega questa differenza abissale? Perché due cittadini accusati di omicidio ricevettero più supporto di quaranta cittadini arrestati illegalmente mentre compivano un’azione umanitaria?
Il Peso delle Divise
La prima ragione è evidente: Latorre e Girone erano militari, rappresentanti dello stato in divisa. Difenderli significava difendere l’istituzione militare, la sovranità nazionale, l’onore del paese. Era facile mobilitarsi per loro, perché la loro causa poteva essere inquadrata in termini di patriottismo.
Gli attivisti della Flotilla, invece, sono civili. Peggio ancora, sono civili che compiono un atto di disobbedienza civile contro un alleato strategico dell’Italia. Sono persone che mettono in discussione l’ordine costituito, che sfidano le narrazioni dominanti, che pongono domande scomode.
Le Alleanze Strategiche
L’India non è un alleato strategico dell’Italia nel senso in cui lo è Israele. Con l’India, l’Italia poteva permettersi di essere assertiva, di fare pressione, di mobilitare l’Unione Europea. Con Israele, evidentemente, no.
Questo rivela una verità scomoda: per il governo italiano, mantenere buoni rapporti con Israele è più importante che tutelare i propri cittadini quando questi vengono arrestati illegalmente. La realpolitik prevale sulla legalità, l’opportunismo sul principio.
L’Ideologia Prima della Cittadinanza
Ma c’è una ragione più profonda, più inquietante. Gli attivisti della Flotilla non stavano semplicemente compiendo un’azione umanitaria: stavano prendendo posizione su una delle questioni più divisive del nostro tempo. E quella posizione non è in linea con quella del governo italiano.
Meloni definisce gli attivisti “irresponsabili” non perché abbiano violato qualche legge (non l’hanno fatto), ma perché la loro azione mette in imbarazzo il governo, costringe a prendere posizione, svela le contraddizioni di una politica estera che predica i diritti umani ma li difende in modo selettivo.
In altre parole, il valore della cittadinanza italiana, per questo governo, dipende da quali cause sostieni. Se sei un militare che ha ucciso due civili ma rappresenti lo stato, meriti tutta la protezione possibile. Se sei un civile che porta aiuti umanitari ma sfidi la narrativa governativa, sei “irresponsabile” e sostanzialmente sei solo.
La Mobilitazione dal Basso
Mentre le istituzioni brillano per la loro assenza, la società civile si mobilita. Il 1° ottobre 2025, migliaia di persone scendono in piazza in tutta Italia: Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Palermo. Non si tratta solo di attivisti storici del movimento per la Palestina, ma di cittadini comuni che hanno deciso di non rimanere in silenzio davanti a un’ingiustizia.
La mobilitazione è globale: manifestazioni si tengono ad Atene, Ankara, Barcellona, Buenos Aires. Migliaia di persone in tutto il mondo si sollevano per chiedere la liberazione degli attivisti e la fine dell’assedio di Gaza.
I sindacati di base e la CGIL proclamano uno sciopero generale il 3 ottobre. Il ministro Salvini minaccia di precettare i lavoratori, in quello che è l’ennesimo tentativo di soffocare il dissenso.
È interessante notare come, anche in questo caso, emergano due pesi e due misure. Quando si manifestava per i marò, era patriottismo. Quando si sciopera per la Flotilla, il governo parla di “voler creare il caos”.
Il Movimento Come Anticorpo Democratico
La Global Sumud Flotilla non è solo una missione umanitaria ma un vero e proprio “anticorpo democratico”: quando le istituzioni falliscono, quando i governi abdicano al loro dovere di proteggere i diritti umani, la società civile si fa carico di quel vuoto.
È successo con le ONG che salvano vite nel Mediterraneo, mentre l’Europa lasciava che diventasse il più grande cimitero del mondo. È successo con la marcia dei 500 che ruppe l’assedio di Sarajevo. Succede ora con la Flotilla.
Sono momenti di rottura non rappresentano solo il gesto compiuto, ma qualcosa di più grande, di più ampio". Momenti in cui la storia cambia direzione, in cui si crea una crepa nel sistema che non può più essere riparata.
Il movimento attorno alla Flotilla ha incanalato “rabbia e frustrazione di molte persone che mai prima d’ora si erano interessate alla Palestina, ma che hanno deciso di non rimanere in silenzio davanti al genocidio al quale stiamo assistendo da due anni”.
Questo è significativo. Non parliamo solo di attivisti di lungo corso, ma di persone comuni che hanno raggiunto un punto di rottura, che non possono più guardare dall’altra parte mentre Gaza viene rasa al suolo.
Altri Esempi di Complicità Silenziosa
Sullo sfondo di questa vicenda, si muove una figura inquietante: Tony Blair. L’ex premier britannico, che ha sulle spalle la responsabilità della guerra in Iraq (basata su menzogne documentate sulle armi di distruzione di massa), è ora il Machiavelli che muove le fili del cosiddetto “piano di pace” di Trump per Gaza.
Alberto Negri, storico inviato di guerra, non usa mezzi termini: “Blair ha sulle spalle la responsabilità della guerra in Iraq nel 2003. Non lo dico io, l’ha detto la commissione di inchiesta parlamentare britannica”. La guerra in Iraq, ricorda Negri, “portò alla completa destabilizzazione non solo dell’Iraq, con centinaia di migliaia di morti e la diffusione del terrorismo internazionale in quel paese, ma in tutta la Regione del Medio Oriente”.
E ora questo uomo è chiamato a “mediare” per la pace in Palestina? Blair è un lobbista delle monarchie del Golfo, un uomo il cui istituto riceve fondi da finanziatori dell’esercito israeliano. Come nota Negri, “Blair è lì soltanto per garantire l’afflusso dei fondi delle monarchie del Golfo. Trump l’ha piazzato lì perché è un uomo di fiducia degli emiri arabi e nient’altro”.
Il piano Trump-Blair non è un piano di pace: è una resa. Chiede ad Hamas di disarmarsi, di accettare un’amministrazione esterna di Gaza, senza garantire né il ritiro israeliano né, soprattutto, una prospettiva credibile per uno stato palestinese. È, nelle parole di Abbas Zaki di Fatah, “una proposta di resa che consegna Gaza a un’amministrazione straniera e distante che non rappresenta il popolo”.
Eppure, il governo italiano sostiene questo piano. Oggi alla Camera, la maggioranza voterà a favore. L’opposizione si asterrà, in quello che è l’ennesimo esempio di complicità silenziosa.
Conclusioni: Cittadini di Serie A e di Serie B
Questa vicenda ci pone di fronte a una domanda fondamentale: che valore ha la cittadinanza italiana? E più in generale, che valore hanno i diritti umani quando diventano ostaggio della realpolitik e delle convenienze diplomatiche?
Il caso marò ci ha insegnato che quando vuole, quando è politicamente conveniente, l’Italia sa mobilitarsi per i suoi cittadini all’estero. Sa muovere la macchina diplomatica, sa fare pressione internazionale, sa trasformare un caso individuale in una questione di stato.
Quello della Global Sumud Flotilla ci insegna invece che questa protezione è condizionata. Se sei dalla parte “giusta”, se non metti in imbarazzo il governo, se non sfidi gli alleati strategici, allora sì, lo stato ti protegge. Altrimenti, sei solo. Anzi, peggio: sei “irresponsabile”.
È un doppio standard che dovrebbe far riflettere chiunque abbia a cuore i principi democratici. Perché se i diritti sono selettivi, se la tutela dei cittadini dipende dalle loro idee politiche, allora non siamo in una democrazia. Siamo in un regime mascherato da democrazia, dove il dissenso è tollerato finché resta innocuo, ma viene criminalizzato non appena diventa efficace.
Gli attivisti della Flotilla sapevano a cosa andavano incontro. Sapevano che Israele avrebbe attaccato, sapevano che il loro governo li avrebbe abbandonati. Eppure sono partiti comunque, perché c’era qualcosa di più importante della loro sicurezza personale: la solidarietà con un popolo sotto assedio, la testimonianza che non tutti sono complici del genocidio, la volontà di essere dalla parte giusta della storia.
E il governo italiano? Ha scelto di restare dalla parte sbagliata, quella del silenzio complice, quella della memoria selettiva, quella dei due pesi e delle due misure.
Tra qualche anno, quando guarderemo indietro a questi eventi, ricorderemo chi ha avuto il coraggio di alzare la voce e chi invece ha preferito voltarsi dall’altra parte. Ricorderemo i marò, celebrati come eroi nonostante avessero ucciso due innocenti. E ricorderemo gli attivisti della Flotilla, abbandonati dal loro governo mentre cercavano di salvare vite.
La domanda è: noi, come società, da che parte vogliamo stare? Vogliamo continuare a tollerare questo doppio standard, o è arrivato il momento di pretendere che i nostri governi trattino tutti i cittadini con la stessa dignità, indipendentemente dalle loro idee politiche?
Perché alla fine la cittadinanza non è solo un pezzo di carta. È un patto tra individui e stato, un patto che prevede diritti e doveri reciproci. Se lo stato rompe quel patto, se protegge i suoi cittadini in modo selettivo, allora quel patto perde significato. E quando un patto perde significato, le persone iniziano a cercare altri modi di organizzarsi, altre forme di solidarietà, altri anticorpi democratici.
La Global Sumud Flotilla è uno di questi anticorpi. Non è un corpo estraneo da rigettare, ma una risposta salutare a un sistema malato. E come tutti gli anticorpi, ci sta dicendo qualcosa di importante sulla malattia che cerca di combattere.
Staremo a vedere se sapremo ascoltare.
P.S. Mentre scrivo, alcuni degli attivisti italiani sono ancora in carcere in Israele. Altri sono stati rilasciati ma con un ban decennale. Tutti hanno subito un’ingiustizia che il loro governo non ha fatto nulla per prevenire o contrastare. Pensateci, la prossima volta che sentirete qualcuno parlare di “orgoglio nazionale” o di “tutela dei cittadini italiani all’estero”. E chiedetevi: quali cittadini? In quali circostanze? Con quali condizioni?
P.P.S. Se state pensando “ma i marò erano militari, è diverso”, avete ragione. È diverso. È peggio. Perché significa che per questo paese, un militare accusato di omicidio vale più di quaranta civili arrestati illegalmente mentre compivano un’azione umanitaria. E se non vi sembra un problema, forse è il momento di riflettere su quali valori vogliamo che rappresenti il nostro paese.